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“L’isola del condannato” di Gianfranco Barcella. Il commento di Franca Maria Ferraris

Fresco di stampa, L’isola del condannato, Kimerik Editrice 2015, è il nuovo libro di poesia di Gianfranco  Barcella, poeta, scrittore e saggista. La raccolta, divisa in due movimenti: L’isola del condannato ( che dà il titolo al libro) e Coliambi (trimetri giambici), si collega alle due  precedenti: In riva al mare e Diario di bordo, così da formare una trilogia avendo, con queste opere, un comune filo conduttore che è il mare.

Come si evince anche dai titoli, il mare, nella poetica del Nostro, resta l’interlocutore preferito, sempre appassionatamente considerato sia nella sua essenza reale che metaforica. Tuttavia, mentre nelle precedenti raccolte il mare è il soggetto manifesto il cui fascino esercita  sui terrestri una grande attrazione, in questa nuova raccolta il cui fulcro è l’isola, il mare ha una funzione che definirei ‘limitante’ per la condizione di ‘isolamento’ che crea nei confronti di chi è  ‘condannato’ a vivere  in questa isola. Al contempo, però, al mare è data comunque una funzione di grande importanza: quella di offrire al ‘condannato’  il conforto della bellezza e la facoltà d’immaginare l’oltre, consentendogli così il beneficio di mitigare l’amaro prezzo  della sua condanna.

Il discorso poetico si dipana attraverso un ampio raggio di argomentazioni in cui la natura è percepita attraverso il filtro dei sentimenti. Vi predomina la consapevolezza della morte come dell’esperienza su cui s’impianta l’etica dell’esistere, poiché l’isola, essendo ‘isolata’ da altri mondi, fa sì  che coloro che la abitano, vivano isolati in se stessi. Ciò accresce nel poeta la percezione  di sentirsi un vero condannato, colui per il quale la  vita “svapora nel riflesso della morte/ a dispetto dell’ardore quotidiano” (p.43).

Tra i versi serpeggia un inquietante ‘pensiero mortale’, lo stesso che tormenta l’umanità,  a tratti, però,  l’evocazione della morte si fa quasi voluttuosa: “per assaporare soltanto il gusto del finire”  (p. 42),  versi dove il ‘finire’ diventa sollievo al logorio inflitto da tale pensiero. Rilevante è l’uso della parola “gusto” che il poeta associa all’idea della fine, in quanto  la lega al fatto che durante la vita si è dedicato al proprio “vizio prediletto” (la poesia), quindi ha assaporato il piacere della scrittura, pur se nessuno – così aggiunge con risentita amarezza –  “m’ha porto una mano concreta/ per far diletto della mia ansia sofferta” (ibidem).

Molto significativa al riguardo è  la poesia La fuga (p. 76) dove il poeta si allontana “dall’ingorgo della vita”, preferendo  “oziare solo alla luce della morte”.

Potrebbe sembrare che il succo di questa raccolta poetica sia solo un triste canto rivolto all’ineluttabilità della fine, invece la musicalità della parola e l’ironia con cui i versi finali di alcuni testi trovano eco in una rima baciata, fanno sì che il vulnus profondo inferto dall’idea della morte si alleggerisca fino a diventare non solo tollerabile, ma addirittura consolatorio, quasi come chi “ pensa/ ai fondali delle umide tombe/ con un sospiro che sale dagli ipogei/ a quell’essenza che pare una”, opponendo  alle lacrime per le sepolture,  “il consòlo di chi più in alto/ s’aduna senza ragioni di colpa”(p. 84).

A queste poesie di denunciata o alleviata sofferenza, sempre supportate da riflessioni filosofiche, se ne alternano altre  di alto lirismo, come quella che canta l’amore per la madre, cui il poeta guarda come a una  “presente assenza” (p. 60),  senza la quale  il senso della vita viene a mancare. E pure un’altra poesia  d’impronta  pascoliana, dedicata al giovane Andrew, è di grande spessore lirico.  Qui, il ricordo del professore – poeta prende la forma di un sussurrato epicedio: “Solo accanto a te[…]/ è il mio ansare nella bonaccia”, e prosegue: Hai occhi violetti come il fiore del glicine/ e i ricordi giovinetti imperlano il tuo volto/ ma l’inverno presto giungerà/ con la sua pioggia diaccia” (p. 67). Versi elegiaci, che esprimono l’intensità dell’affetto  da cui sono dettati.

In alcune poesie Barcella, con occhi incantati come quelli con cui osservava il mondo quand’era bambino,  guarda ai luoghi della Liguria, come in “Nostalgia dei Piani d’Invrea” dove : “[…] sogno/ il lumeggio della bianca scogliera/ che si diffonde per l’aria chiara/ nella soave cerulea ebbrezza dei Piani d’Ivrea” (p.161). Qui la bellezza è giustamente considerata un’amorevole quanto  preziosa compagna nel percorso umano, così  come lo sono le peculiarità delle stagioni vissute attraverso le emozioni che i mutamenti della natura suscitano nell’animo, quando  le struggenti immagini  delle malinconie autunnali si confondono con le sofferenze patite, e i dolci risvegli primaverili suscitano il desiderio di una  rinascita interiore per vivere insieme con la natura che rifiorisce l’ebbrezza di un rifiorito ardore.

Ma è all’“Isola di Frioul”,  che il poeta si dirige. La vede erigersi nella sua bellezza, attorniata dai “gabbiani/ in libero volo”, e non appena  presso le sue coste scorge una barca – quella di Caronte –  immagina di salirvi per salpare verso l’oblio,  “dove per sempre il cielo si tace” (p. 37).

Così circolarmente il Nostro immagina si  concluda il misterioso ciclo della vita e, mentre ancora  un residuo barlume di speranza gli consente di attribuire una parvenza di senso all’esistenza, già ha fatto sua  la certezza che nulla potrà modificare la ‘condanna’,  nulla potrà mutare il ciclo del vivere e del morire.

Alla meditata constatazione poetico – filosofica di cui Gianfranco Barcella dà atto in questa raccolta, sembrano rispondere questi versi di Wallace Stevens, uno dei massimi poeti americani del Novecento: “Eppure questa fine è una sola cosa con l’inizio,/ uno solo è l’ultimo sguardo alle anatre, / ai bambini lucenti che attorno ad essa girano in cerchio”.

(Franca Maria Ferraris- dicembre 2015)

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