Meriggio, Gabriele D’Annunzio
La lirica Meriggio è inserita in Alcyone, terzo libro delle Laudi, in questo libro prevale una disposizione più equilibrata, nel senso che Alcyone segna un venir meno della tensione che ha caratterizzato tutta la fase superomistico-tribunizia, è un momento di Tregua: è significativo che così si intitoli la lirica che apre la raccolta. Attenzione però, non è la tregua dal superuomo ma è la tregua del superuomo.
Meriggio è la lirica più rappresentativa di quell’atteggiamento che ispira tanta parte della produzione dannunziana e che è stato definito panismo (da Pan, il dio pagano che nella calura meridiana vaga per la campagna) e che consiste in una accentuazione della dimensione istintivo-sensoriale allo scopo di realizzare una comunione con la vita della natura.
Non è però un’osmosi né un’iterazione dinamica dove l’uomo realizza un’equilibrata comunione con la natura. Questo connubio esclude ogni accento mistico, non c’è religiosità, si risolve invece in una apoteosi, in una pagana celebrazione del corpo che domina la natura.
La poesia è divisibile in due parti. La prima (vv. 1-54) descrive un meriggio estivo in Versilia, con il mare che fa da contorno ad un paesaggio immerso in una natura assolata.
Il vento non soffia: la spiaggia, le canne i ginepri, tutto è silenzioso e in lontananza le bianche vele giacciono immobili, attorno a Livorno.
Il poeta vede Capo Corvo e l’isola del Faro e ancora più lontano le isole di Capraia e Gorgona di dantesca memoria.
Il poeta continua nella descrizione delle Alpi Apuane e del mare e della spiaggia dove sorgono sparse capanne di pescatori.
Ecco che dal verso 55 autore reale ed autore implicito si mescolano, il poeta si fa uomo e scende in mezzo a questa natura (mio capo) (mia mano) (mie labbra).
Gradatamente le sue sembianze assumono i colori della natura che lo circonda: perduta è ogni traccia dell’uomo.
Non è una mistica ascesi, semmai un’amplificazione delle proprie capacità sensoriali:
il tatto si affina, il fiume è la sua vena, il monte la sua fronte.
Come in un crescendo, la dimensione umana si eleva alla potenza, in un gigantismo che culmina in una panica fusione con la vita dell’universo: in tutto io vivo… E la mia vita è divina.
Così cade il confine tra uomo e natura, e l’uomo diviene Dio.
La composizione consta di quattro strofe di ventisette versi con rime e assonanze liberamente distribuite. Ed è qui che ritroviamo la modernità formale del D’Annunzio che sceglie il verso breve per rendere più incisivo il discorso. Questa incisività è rimarcata dalla scelta dei caratteri di interpunzione che determinano pause e a volte spezzano il verso (alita. Non trema) (biancica. Pel chiaro) mettendo in rilievo alcune parole.
Vi è, nel complesso, una chiara unità tra metrica e significato, tanto che ogni verso coincide con un sintagma.
Gianfranco Natale
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A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura.La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.