Quasi una recensione… Rose’s Story di Enzo Tardino.
Recensione a cura di Emilio Pasquini
Rose’s Story 1943 (Saga di un paese) sono il titolo e il sottotitolo di un romanzo di Enzo Tardino(già giudice della Corte Suprema) che il sottoscritto, vecchio letterato dell’Alma Mater studiorum, ha avuto la fortuna di leggere in una prima redazione in due tomi (2016) e che ora si presenta come volume unico in edizione definitiva (maggio 2019).E non mi sorprende affatto l’indiscrezione giornalistica,secondo la quale non pochi registi(italiani e stranieri) siano interessati alla versione cinematografica della di lui opera.Una storia che lascia trapelare,come
nella consuetudine della gran parte degli scrittori,parti importanti della vita dell’autore,talune sue sottese elucubrazioni,oltre che personaggi che hanno interessato la storia di questo paese(come nella rappresentazione drammatica della morte di Raul Gardini edei suoi funerali ,la cui parabola si è svolta in tutt’altro contesto).
Ma apriamo il romanzo alle prime pagine. Si comincia con la rivisitazione della storia italiana del primo Novecento vista con gli occhi dell’autore colto, non certo di Rosa Balistreri,la protagonista del libro;e sempre filtrato attraverso le memorie di Rosa è pure il mito di Mussolini sullo sfondo del nostalgico richiamo alle belle canzoni fasciste, ma con vuoti interpretativi colmati dalle riflessioni dell’autore (capp. VII-VIII): le cui digressioni,meglio pacate intrusioni ,
sono nel segno di una garbata sollecitazione a non perdere di vista le di lui idee su certe cose importanti del suo racconto.In questo contesto Rosa diventa assai spesso una semplice comparsa,come nel cap. IX, dove prevalgono i referti sulle esperienze comuni a tutti i giovanotti di quei tempi, con l’autore che illumina da storico provetto certi particolari (ad esempio i bordelli, sognati dai minorenni). Ma sono solo dei passaggi funzionali,direi dei lampi retorici per non far dimenticare al lettore i modi di leggere certi fatti,perché subito riemergono i ricordi di Rosa e le sue colorite battute dialettali, nei godibili capp. X-XIV dove si rievoca l’estate del 1940, con la gente allarmata dalle istruzioni sui possibili allarmi aerei, «anche se Mussulinu si decise finalmente a proclamare che l’ora segnata dal destino era scoccata…».E’ sempre il racconto di Rosa il life motiv del libro,anche se le memorie di Rosa continuano ad essere intramezzate,pur nella fedeltà della registrazione, dalle continue messe a punto (specie nelle glosse a piè di pagina) operate dall’autore, cui si deve la continuità nella rievocazione storica degli eventi, come nei capp. XV-XXV.E’ in questa chiave che si legge il ragguaglio (cap. XXV) sui campi di sterminio nazisti e si esprimono umane e accorate perplessità anche su quel dio che avrebbe permesso simili orrori.
La Parte seconda si apre con lo sbarco degli Americani, o meglio con l’attesa dello stesso fra gli abitanti di Licata ; ma spetta certo all’autore la poetica rappresentazione dello stupore nevrotico di quell’attesa,così bene mediato dalla citazione del poeta Buttitta (su una Sicilia «addummisciuta, che dorme u sonnu di li morti». Ma poi nel cap. III siamo di nuovo alle prese con Rosa, che si salva da un possibile stupro, fra le truppe tedesche, cantando a squarciagolaLilì Marlene,così scoprendo la sua vera vocazione e… «come l’arte potesse aiutare ad essere più buoni». In presenza, dunque, di questo “romanzo-inchiesta”,ovvero di una realtà rarefatta e stratificata nella memoria giovanile dell’autore,oltre che nel racconto dei paesani (capp. IV-VI), con uno scialo vivacissimo del dialetto: il tessuto narrativo è affidato alla voce stessa dell’autore, che non disdegna anche di allegare stralci di documenti ufficiali (capp. VII-VIII),comenei contrappunti dell’americano Ernie Pyle, il più famoso fra i corrispondenti di guerra.Ma non vorrei ridurmi a fare un riassunto di quest’opera così impegnativa e articolatafermandomi ai fatti essenziali;e per questa ragione ho voluto spaziare riesumando quanto ho inteso sotteso nel libro,scavando fra il documentario, il diario, il romanzo,le memorie autobiografiche,le notti inquiete e le schiarite poetiche di anime dolenti.
Bello, a sfidare la pornografia,ma deliziosamente ironico il pezzo sulla nobile signora sedotta e violata dal giovane negro, con una chiosa (n. 115) a piè di pagina, dove emergono certe acute riflessioni sulle debolezze umane e sul valore simbolico delle fantasie sessuali (cap. VIII);nonché allegri spunti di una certa aneddotica quotidiana (capp. IX-X). Specie a partire dal cap.IX, Tardino si fa cronista fedeledella conquista progressiva della Sicilia e dello stato d’animo dei siciliani. Non manca di citare (a p. 192), «tra le cose più toccanti dei miei ricordi», un nobile manifesto sulla Liberazione, mentre non rifugge dal delibare note di cronaca dove viene fuori, in alto registro,la deformazione professionale del giudice (si veda la nota 118). La Parte terza, intitolata al maggiore Frank Toscani s’incentra sulla figura magnanina,efficiente e generosa di questo militare italo-americano, incaricato di governare la regione appena conquistata,e sulla cui personalità e anche sui suoi amori segreti,Tardino rivela in pagine di grande finezza le gratificanti e irragionevoli dissolutezze di un amore incompiuto e struggente,che avrebbe lasciato ad un eroe di tante guerre un ricordo davvero bello e più consolatorio e vincente della stessa vanità bellica delle sue medaglie.
Mi rendo conto tuttavia, a questo punto, di non potermi permettere un esame così minuzioso del lavoro di Tardino, di fronte alle tante parti del suo racconto,che pur meriterebbero di essere vagliate: punto,perciò, sulle cose davvero letterariamente importanti,e soprattutto sulla drammatica progressione dell’esistenza avventurosa di Rosa Balistreri. Se questa terza parte ha al centro, da un lato,le famigerate Am-lire col “mercato nero” e dall’altro l’innamoramento fra Rosa e il giovane soldato Frank, la quarta, che s’intitola L’esodo degli Americani da Licata e la caduta di Mussolini,è ricca di brividi lirici, ragguagli storici (con generosa esibizione di fonti) interessanti che vanno dalle vicende anche personali del Duce(il suo rapporto con la Petacci)allo sfascio dell’Italia dopo l’8 settembre,alla fine di Galeazzo Ciano e alla morte orribile di Mussolini nel segno ricorrente delle morti illustri di tanti piccoli tiranni.
La quinta e la sesta parte, rispettivamente intitolate a Don Calò (un celebre capomafia) e a Briganti e Mafiusi, mettono in scena faccende e modalità dell’eterna e onnipresente mafia siciliana, che l’autore mostra di conoscere a menadito, anche perché può attingere ai vertici degli addetti ai lavori, i Falcone e i Borsellino. La settima parte (Filippu di li testi…) rievoca, in un trionfale incrocio di lingua e dialetto, l’attesa del matrimonio e il noviziato scolasticodi Rosa, che impara a leggere e a scrivere(…,e dove trepida nella giovane analfabeta l’idea del valore, anche socialmente vincente, della cultura) . Si arriva,quindi, dopo gli eventi storici di quella fase bellica(…con i bombardamenti dell’Abbazia di Montecassino,la linea gotica,Marzabotto,la lotta partigiana e la Liberazione)alla ‘stagione dei ritorni e dei regolamenti dei conti ‘,ovvero alla storia delle piccole e crudeli vendette e alle ritorsioini – che è nel seguito consolidato di tutti i dopoguerra – e alla fase della caduta di ogni entusiasmo e alla stupita rassegnazione che ne consegue;ma l’autore ci ammonisce tra le righe del suo libro a “non perdere la voglia di fantasticare” (è questo il singolare titolo della Nona Parte):con Rosa che vuole ad ogni costo tornare a vivere (proposito,questo,stilisticamente e simbolicamente rappresentato anche da uno stupefacente scialo di dialetto siciliano),con il suo matrimonio dal quale comincia l’inizio della sua via crucis : la sgradevolezza della prima notte nuziale,la cieca violenza di Iachinazzu
che gli fa perdere il figlio che stava per nascere,la separazione e la rappacificazione poi dei due coniugi con la nascita di una bimba; l’avida prepotenza di Iachino, che spoglia la casa per pagare i suoi debiti di gioco, la lite furiosa con Rosa disperata che accoltella il marito ed è condotta in manette in carcere e poi in manicomio.Segue l’intermezzo penoso e disincantato di Rosa al Manicomio Provinciale di San Calogerocon la sua camicia di forza(lo strumento di contenzione dei pazzi):dove l’allucinazione è il metro di realtà delle visioni del folle: “…che vede,ed è certo di vedere quello che vede”e dove viene rappresentata l’infernale dissoluzione dell’uomo alle prese con le torbide paure della mente (...Qui,Rò è la tua notte per sempre,anche in pieno giorno:nell’oscurità non vedi niente e nessuno ti può vedere e così ti puoi tuccari quando e come vuoi,ti puoi alliccari di godimento e di sperma,puoi parlare quando e come vuoi…La fame,la sete,il freddo :li senti ,ma non senti il bisogno di mangiare,di bere,di coprirti…Sei tra la paglia e la merda, in un porcile…).Sono pagine drammatiche quelle che descrivono l’inferno della mente disturbata ,e alle quali fa da contrappunto pietoso il lamento di Ada Merini,una fine e dolente poetessa che trascorse molti anni della sua vita nel terrore del chiaroscuro,nel manicomio dove: “…viene il mattino azzurro sulle panche di sole e di crudissimo legno…,dove siedono gli ammalati che non hanno nulla da dire ,odorano anch’essi di legno,non hanno ossa né vita,stanno lì con le mani inchiodate e nel grembo a guardare fissi la terra”.Davvero toccanti le parole dell’autore: “…i sogni svaniscono all’alba mentre i vapori e le turbolenze della follia tormentano il malato di mente da sveglio e di giorno.E’ il suo delirio,quello che dicono’ il sogno delle persone sveglie’ “.Insomma,si finisce con l’approdo dell’autore ad una sua diagnosi filosofica sull’uomo ,che ha tutta la svagata e stringata lucidità di certe pagine dello Zibaldone leopardiano.
A Licata,nel processo di Rosa per lesioni gravi al marito ,si vede una Rosa abbattuta ma dignitosa che,in un discreto cicaleccio che montava dalla folla di spettatori,rivelava nell’aula giudiziaria la sua verità: “…che non era pentita e neppure pazza,perché in quella notte disgraziata aveva difeso come aveva potuto se stessa e la sua bambina”.Scontata la pena accompagna la madre malata di polmoni in una clinica del Nord ,in Valtellina:dove per la prima volta sente cantare ‘O bella ciao’,che divenne la canzone della sua liberazione e della sua conversione politica. Non a caso l’undicesima parte si intitola La pasionaria: siamo nel primo dopoguerra, e cominciano ad emergere le idee politiche di Rosa, la sua militanza fra i comunisti , con una particolare attenzione ai fatti del Meridione, doveil proletariato fece le sue più cruente battaglieper la democrazia e la libertà.L’intelaiatura storica è tutta dell’autore, che segue fonti autorevoli sia per il referendum del 1946 sia per l’episodio di Portella della Ginestra sia per le elezioni del 1948. Ma nel cap. V riemerge prepotentemente la figura di Rosa, con i testi delle sue canzoni popolari e a capo,con quel suo fazzolettone rosso, di quei cortei di poveri che andavano metaforicamente a conquistare le terre dei padroni e dei baroni(…una figurazione quasi epica come nell’Anabasi di Senofonte per quella spedizione contro la Persia,o nell’Esodo di quel popolo ,già schiavo e liberato,che andava verso la terra promessa).
La rivediamo ‘Nella Palermo perduta…’,trasferita a servizio nel palazzo del duca Aloysio presso il suo nuovo padrone, don Alessandro con la moglie donna Margherita,e dove può finalmente coltivare la sua chitarra .Una cornice di grande erudizione storica,con tanti bei tocchi di una Palermo d’altri tempi in cui Rosa va gradualmente raffinandosi, non senza indulgere a una tresca col giovane che va a lezione da donna Margherita. Si era fatta anche più presentabile,curata e graziosa: «Sembrava una donnina orientale, un tipo di bellezza esotica: non so, una giapponesina d’alta classe con quei suoi occhi stirati e la capigliatura alla maschietta, come usava…».Erano i frutti dell’educazione impartita dalla sua patrona, che è al centro (nella tredicesima parte, Le cene della disputa) del grande ricevimento che si tiene a casa Aloysio con la presenza di personaggi illustri come Sciascia, Bufalino, Guttuso, Guglielmo Giannini e un ampio e vivace dibattito (capp. II-III), che ha in primo piano il problema della migrazione e della mafia: davvero (grazie alla robustezza delle argomentazioni) uno dei punti di forza del romanzo.Riappare al Carcere dell’Ucciardone per un altro suo infortunio in casa Ricciardi dove era andata successivamente in servizio .In prigione torna a cantare,addirittura in milanese con i canti della mala…,il primo vero grande trionfo della sua vita…
Uscita dal carcere lavora ,sempre a Palermo,presso un vecchio prete che accudisce e assiste anche nelle incombenze di sacrestana fino a quando il nuovo giovane parroco – che succede al defunto e santo prelato -,un vero demonio,non persegue il seducente progetto di ricamare con lei.Scappa allorain Toscana accompagnata dal fratello, presso la buona signora Catania: impara le canzoni fiorentine, si sposa con un pittore, canta al Festival dell’Unità, e finalmente arriva alla scelta decisiva, di fare solo la cantante, dopo il successo arriso al suo primo vero concerto in pubblico, a Piombino (cap. VIII),durante il quale Gardini,il grande faccendiere, la volle conoscere.Diventa famosa e si esibisce nei teatri di tutta Europa e anche in America ,dove dopo un memorabile concerto incontra il maggiore Toscani(il conquistatore di Licata e suo protettore).In una pausa del suo itinerario di successi all’estero,nella cattedrale di Siviglia ,dove per la stanchezza è in preda ad un occasionale malore,viene accudita da un vecchio monaco itinerante che le fa scoprire il senso di un dio misterioso e salvifico.Fu la volta del Concerto di Lisbona, con Rosa invitata in Portogallo dalla grandissima Amalia Rodriguez,e successivamente,dopo la traversata sulla nave che l’avrebbe riportata a Palermo(dove conobbe lo scienziato Zichichi e altri importanti personaggi,e dove si verificano tanti allegri episodi),canta con Amalia Rodriguez al teatro Politeama con un concerto storico,Il concerto di Palermo,con il quale si conclude la sua carriera artistica,ma non il suo impegno sociale e politico.Segue quella che l’autore chiama ‘Un’impetuosa ventata di rivoluzioni…’nella quale,ma sempre con minore entusiasmo,è sempre presente, anche a Milano,nella drammatica ricorrenza dei funerali delle vittime della bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura e nelle altre importanti manifestazioni sindacali e politiche nei cortei dei poveri e degli ultimi che difendevano i loro diritti.In una di queste occasioni Rosa capì molto della sua vita e del suo impegno politico,ma pianse-scrive l’autore-passando tra le labbra un lembo sdrucito di una bandiera rossa:strusciandovi fortemente il viso e farfugliando da sola e ad occhi chiusi rauche astruserie,che sono,forse tra le cose più belle del libro ,che non possiamo fare a meno di ricordare: “Sono addolorata anche per te,che non sei più la mia bandiera.Finché sei stata con gli operai e gli artigiani ,con i contadini e i salariati ,eri una bandiera pulita e onorata.Poi,poi,ti sei montata la testa con il potere,la cultura e gli affari e dalle mani callose e ruvide dei braccianti e dei manovali sei passata in quelle lisce e morbide di signori con baffi e occhiali ,le camicie di seta e le cravatte di Pierre Cardin.La tua storia,certo,non è tutta limpida e hai nascosto anche tu i tuoi scheletri nell’armadio;ma…,ma finché avrò vita non potrò mai dimenticarti.Non potrò mai scordarmi di questo pezzo di panno rosso ,sporco di sangue povero e furente.Da quel pezzo di stoffa ho imparato anch’io ad aver coraggio ,a fare le mie battaglie,a diventare donna come le altre…”.
Il romanzo ,dopo attente riflessioni sulle rappresaglie brigatiste e sull’uccisione di Moro(del quale l’autore è stato assistente alla facoltà di Sc.Politiche di Roma per l’insegnamento del diritto penale),finisce davvero con un succinto,e quasi sfuggente ricordo del Nono Centenario dell’Università di Bologna,nel quale Rosa Balistreri viene coinvolta da Giuseppe Caputo,il vero regista di quella che potremmo dire epica rievocazione,in un ruolo molto defilato ,ma decisivo e concludente per avere la stessa accompagnato sino alla fine la morte di questo straordinario malato terminale:sulle cui ultime e anche dotte e patetiche farneticazioni si polarizza il messaggio poetico dello stupore angosciato dell’uomo rispetto al mistero della morte,che è umanamente irrisolvibile.Su quest’ultima parte ,che vede in scena personaggi di primo piano della cultura bolognese (Umberto Eco,Roversi Monaco e anche Lucio Dalla)Tardino descrive pagine di rara efficacia ,costruendo con maestria e tanta dolente e colta partecipazione l’ultimo dialogo di Caputo con la cantante :che va ben oltre la giusta rivendicazione di un diritto ad una buona morte :che è la morte accettata ,in solitudine e in una condizione di necessaria pacatezza,senza isterismi e mediazioni più o meno cospicue di altre persone che non abbiano altro da offrire che non sia l’aiuto attivo nel lenimento delle sofferenze che possono sopraggiungere .E questo,secondo l’autore, è stato il messaggio di Caputo che chiede semplicemente a Rosa di cantargli quella ninna nanna ,che lei cantò nel suo ultimo spettacolo bolognese,suscitando applausi interminabili.
Certo,Rosa era molto commossa,ma provò lo stesso,dice l’autore ‘ con la sua voce impastata e rauca a smozzicare quella nenia’.Ma ben presto non andò più avanti e quasi in punta di piedi andò via : “…perché quel malato terminale(che era anche ,oltre che un uomo colto e sapiente,un uomo diventato per la malattia arrogante,saccente e contestatore)si era appisolato coprendosi il volto con un lenzuolo:così come gl’imperatori e i grandi della romanità classica che non sopportavano di essere guardati in faccia mentre morivano”.
In conclusione, siamo di fronte a un prodotto davvero insolito, di notevole qualità, gremito di notizie e nutrito di una cultura non solo giuridica (l’autore è un magistrato di lungo corso, giunto fino alla Suprema Corte di Cassazione), chiaramente inquadrabile in una temperie post-moderna: definibile insomma anche come romanzo-documentario piuttosto che come romanzo storico (allo stesso modo di quel Mussolini il figlio del secolo di Antonio Scurati, che ha riempito ultimamente le pagine dei giornali).Prescindendo,però ,dalla mia conoscenza diretta di Enzo Tardino,e rifacendomi a un’intervista captabile in rete,ho potuto desumere dati molto significativi : che,cioè,quanto alla ragione del titolo in lingua inglese,questo sia semplicemente allusivo alla rivelazione(quasi esistenziale)che la protagonista del libro ,Rosa Balistreri,ebbe con lo Sbarco degli Americani in Sicilia:dal cui evento di privazione e di disperazione seppe maturare il concetto che si può ,con il giusto coraggio e una plausibile motivazione…,venir fuori da qualunque inferno ;che delle molte inflessioni dialettaliche costellano il suo romanzomi convince la spiegazione dell’autore,secondo il quale si è voluta fare:” anche la storia di persone ,in un certo senso emarginate ,e per le quali il dialetto è il loro ultimo straccio di fierezza e di autonomia “.Non a caso le pagine iniziali con L’antefatto si aprono con il testo di una canzone di Otello Profazio,che cantava per la gente comune e per il popolino.Proprio in questa occasione di una pubblica esibizione di canti popolari in quel di Tropea a Enzo Tardino venne l’estro di conoscere Rosa Balistreri,già cantante affermata in tutto il mondo.I due scoprono di essere compaesani e il Tardino si decide di raccontare le tappe di una vita difficile,ma senza aggiungere né togliere nulla con malizia :così come un semplice cronista.
“ Questa è la sua storia ,così come,pressappoco me la raccontò con particolari inediti e con la sua voce fioca e ruvida”.Ma poi le cose sono andate diversamente(«La letteratura non è reportage, ma finzione…»), e hanno prevalso certi modi romanzati (e la personalità prorompente del giudice-scrittore)e la rivisitazione poetica della sua infanzia,della sua storia e della sua concezione di vita pervasa da un incanto ossessivo di mistero : «Ho tenuto per buono il suo racconto di parte, ma poi sono andato avanti per conto mio…».
Emilio Pasquini