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Recensione “Eri con me” di Angelo Aliquò

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Eri con me
di Angelo Aliquò
ISBN: 978-88-9375-373-9
Formato: Rilegato
Genere: Narrativa
Collana: Kimera
Anno: 2017
Pagine: 102
Disponibile anche in formato e-book

Approfondimenti sull’autore palermitano, dott. Angelo Aliquò e sul Libro “Eri con me”. 
Francesco e Angelo Carruba erano gemelli. All’età di sei anni, Angelo venne rapito e assassinato da una donna crudele. Da allora il fratello ha continuato a vivere per due.
Nell’ultimo periodo della sua esistenza, sentendo che la propria vita sta per volgere al termine, il gemello sopravvissuto inizia a ripercorrere con la memoria quel sentiero fatto di ricordi dolorosi che ha avuto origine nel giorno in cui accadde la tragedia e si è sviluppato per molti anni, fino alla lontana conclusione di quei terribili eventi che hanno segnato la sua famiglia e sconvolto l’intero paese di Gratteri, in Sicilia.
La storia è ambientata in un periodo in cui l’Italia stava uscendo dalla Seconda Guerra Mondiale. Il padre dei gemelli era tornato sano e salvo dal fronte e aveva ripreso il mestiere di cacciatore.
Erano tempi in cui si aveva un forte attaccamento per le usanze locali e le tradizioni venivano tramandate di padre in figlio ricorrendo a storie romanzate e fantastiche, come quella delle “scarpuzze di pelle lupo” messe ai piedi dei gemelli appena nati per farli crescere forti e intelligenti.
Gli americani erano visti come eroi “grandi, grossi e belli”, che portavano la cioccolata e i giocattoli nuovi ai bambini. Gli anziani trascorrevano buona parte del loro tempo affacciati sulle vie “esposti ai raggi del sole” e dalle loro postazioni strategiche osservavano i viandanti, si scambiavano pettegolezzi sui propri compaesani e vegliavano sui bambini che passavano per la strada. Tale usanza ancora oggi sopravvive in alcuni paesini siculi, anche se in generale questo senso di familiarità, fratellanza e sorveglianza reciproca, che un tempo caratterizzava tutto il popolo italiano, soprattutto quello meridionale, ormai lascia sempre più spazio alla diffidenza, a causa dell’aumento di episodi criminali che guastano la società.
“Mai nessuna violenza era accaduta in paese. L’unico pericolo era quello immaginario dei lupi o quello dell’aquila che aveva preso il fratellino di Girolamo mentre la madre lavorava nei campi e lui era fuori dalla casa nel bosco di San Giorgio, per poi farlo cadere da un’altezza che al bambino era stata fatale. Questo ci raccontavano per non farci allontanare dagli adulti e allertarci dai pericoli della natura” racconta il protagonista.
Nell’immaginario dell’epoca i delitti di mafia e quelli d’onore venivano avvolti da un alone di mistero: si trattava di casi che si verificavano raramente, di cui tutti gli adulti conoscevano le esatte dinamiche nonostante la versione ufficiale parlasse di suicidi, e in ogni caso la gente alludeva a certi argomenti con una sorta di riverenza e anche di distacco, come a volerli differenziare da pericoli più concreti e comuni.
I bambini giocavano insieme, per strada, approfittando delle giornate ancora luminose e calde nonostante fosse già dicembre, “nel pomeriggio ancora caldo, con le cicale che stranamente si ostinavano a farsi sentire”.
La mentalità dei paesani era più semplice e di quella attuale. Per esempio, l’usanza di vestire i gemelli in modo diverso per distinguerli consentiva non solo di usare alternativamente gli stessi abiti per entrambi, risparmiando sui costi, ma diventava un’occasione per sottolineare l’importanza dei legami familiari, a maggior ragione tra fratelli (per di più gemelli, in questo caso).
“Non c’è mio e tuo. Siete fratelli, siete una cosa sola”: questa perla di saggezza popolare racchiude tutta la capacità di adattamento, la semplicità e lo spirito pratico caratteristiche dei siciliani.
Erano anche tempi in cui il marito picchiava la moglie anche solo per il fatto che fosse stanca e manifestasse la necessità di concedersi un po’ di riposo e se questa aveva un esaurimento veniva chiusa in manicomio, dove finiva con l’impazzire sul serio a furia di essere imbottita di calmanti e subire scosse elettriche. “In quel tempo la donna era soggetta all’uomo e il marito poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire”.
Per bambini ingenui come Angelo e Francesco, cresciuti in un ambiente di questo tipo, un comune di 3000 anime costituiva il mondo intero. Ai loro occhi tutti gli adulti sembravano “grandi, alti e possenti” . I grandi decidevano tutto, i piccoli dovevano ubbidire.
Nessuno credette a Francesco quando disse di aver visto Annina, una ragazzina “bionda come un angelo dei dipinti della chiesa, ma malnutrita e fragile”, prendere il piccolo Angelo e portarlo via “per colpa del gioco che avevamo fatto”.
Ma prima di procedere con il racconto dettagliato di tutti gli avvenimenti che si susseguirono dopo la scomparsa del gemello, il protagonista si prende tutto il tempo necessario per presentare gli attori che, in un modo o nell’altro, rimasero coinvolti nella triste vicenda.
Il protagonista comincia quindi una lunga digressione, iniziando il suo racconto dagli antefatti e dai retroscena personali di Annina, lo Scannatore, Angelino, Giacomina e i rispettivi familiari. Partendo dalle loro origini, infatti, possiamo comprendere meglio la rete di mezze parentele, conoscenze e mistificazioni che li legano. Conoscendo le diverse mentalità, le ossessioni di alcuni, le violenze e gli inganni subiti dagli altri, possiamo capire cosa li spinse a compiere determinate scelte che portarono alla morte di un innocente.
Ed ecco che sfilano in ordine sulla scena le figure più misere e squallide di questa storia: da una parte i reietti e gli emarginati, dall’altra i prepotenti e i mistificatori. Tra queste, quattro figure in particolare si rivelano determinanti.
Annina appartiene all’ultima famiglia tra le più povere del paese,  figlia del caso, e di venti lire date a sua madre da un anziano tedesco in visita a Cefalù”. Nell’aspetto e nei modi è diversa dai suoi familiari sporchi, rozzi e ignoranti: il padre e la madre erano cugini, la sorella maggiore è sposata con lo zio, “metà dei maschi di famiglia era morta o dispersa in una guerra senza mandare una sola lettera, perché non erano in grado di scriverla”. A Gratteri tutti sapevano che prima che nascesse sua madre Rosetta si era allontanata dal paese per alcuni mesi per lavorare come prostituta in una squallida catapecchia in cambio di una misera paga. Lei, divenuta ignara complice di una pazza assassina, è una delle tante vittime dell’ottusità e della vigliaccheria dei compaesani: tutti sapevano che i suoi familiari la picchiavano, che il macellaio, detto Lo Scannatore, l’aveva praticamente comprata dai suoi genitori per darla in sposa al proprio figlio al solo scopo di poterla possedere a piacimento, eppure nessuno è mai intervenuto per salvarla dalle violenze dei suoi e dagli stupri subiti dal suocero. E Annina, che non conosceva altro che quell’unico modo di vivere, accettava tutto passivamente. “Il mondo di Annina si fermava davanti alla volontà di chiunque altro”.
Anche se per poco tempo, il destino di Annina viene legato in modo forzato ad Agatino, figlio dello Scannatore, un ragazzo grasso e tarchiato, con la mente fragile e la foce da femmina, prima picchiato dal padre e poi costretto da quest’ultimo a essere ciò che non è, cosa che finisce col portarlo all’esaurimento. Deriso, insultato e umiliato dai compagni crudeli, accudito da una madre degenere che lo vestiva da femmina perché al suo posto avrebbe voluto una figlia.
Lo Scannatore è il personaggio che, al pari di Giacomina, suscita la maggiore indignazione nell’animo del lettore. È un padre-padrone prepotente e presuntuoso. Esasperato dall’omosessualità del figlio, il quale non potrà mai concedergli il nipote tanto sperato, mette gli occhi sulla bella e  povera Annina ed escogita un piano turpe e malvagio: costringe Angelino a fingersi guarito dalla sua deviazione e a sposare la ragazza, per poi violentarla ripetutamente, col tacito consenso dei parenti di lei e della moglie sottomessa, e metterla incinta. Per aggirare l’etica e la morale tenta di convincere il parroco a concedere il suo consenso per quel matrimonio e quando il discorso che si era preparato con parole attentamente studiate non sortisce l’effetto sperato, passa alle minacce dirette, senza alcuna vergogna né rispetto o timore per la casa del Signore. Il prete, scoperto peccatore nella sua natura di uomo, non può che cedere al ricatto e rendersi complice di peccati ancora più gravi dell’aver rotto il voto di castità con alcune parrocchiane. “Era evidente a tutti che ciò che stava accadendo fosse un suo capriccio, una sua torbida volontà” dice ancora una volta il protagonista, sottolineando l’ipocrisia dei paesani e la ferocia di questo personaggio.
Giacomina Maria Perrone è una di quelle anime insoddisfatte dalla vita, che nutre rancore nei confronti del suo prossimo. Nella sua visione distorta del mondo, tutti gli altri stanno sicuramente meglio di lei e le hanno fatto qualche torto. La sventura di essere rimasta vedova troppo presto, con una pensione minima e un figlio sfaccendato che le dà continui grattacapi va di pari passo con la sua inettitudine: la donna, infatti, si lamenta continuamente per la sua condizione, ma non cerca di trovarsi un lavoro, preferendo recitare la parte della vedova perennemente in lutto, che rimpiange la prematura scomparsa del coniuge davanti agli altri ma lo maledice in privato, che si vede sempre vittima di truffe e della malizia altrui: “odiava tutto e tutti, anche l’ostia che ogni giorno della sua vita ormai masticava con rabbia”. È sconcertante la lucidità e la ferocia con la quale progetta di uccidere i figli del cugino per una questione inesistente, prodotta dalla sua ossessione per il denaro e la vendita di una sua vecchia proprietà. L’esecuzione del bambino è violenta e brutale “come se si trattasse di una gallina a cui aveva tirato il collo”.
Dopo aver presentato questi quattro soggetti nella loro complessità, il protagonista riprende la ricostruzione degli eventi successivi al rapimento: le ricerche, le indagini, il ritrovamento del cadavere, gli arresti, il processo e la conclusione. Tutta la verità verrà lentamente alla luce, mentre i personaggi continuano la pantomima delle loro misere esistenze, come maschere grottesche con un ruolo da interpretare.
Il gioco segreto cui il protagonista allude all’inizio del romanzo – e che per tutta la vita ha creduto fosse stata la causa della morte del suo gemello – viene rivelato soltanto nel finale: è l’ultimo peso che egli ha bisogno di sganciare per porre definitivamente fine al tormento che lo ha logorato.
Il romanzo di Angelo Aliquò è talmente denso di contenuti che in ogni rigo è possibile individuare accenni o anche semplici allusioni a credenze popolari, tradizioni e costumi siciliani, aneddoti e fatti di cronaca, il tutto senza perdere di vista la storia principale, che si dipana in modo lineare, con un ritmo sostenuto. Nella mente del lettore si materializzano con facilità volti, luoghi, paesaggi, suoni e sapori.
Benché il romanzo sia frutto della fantasia dell’autore, la storia trae ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1946.


Angelo Aliquò, palermitano, nato nel 1968. Ha già pubblicato il romanzo Carta, forbice e pietra per la Casa Editrice Kimerik, con il quale è stato finalista al premio letterario Raffaele Artese di San Salvo (CH), edizione 2016. Con il medesimo romanzo è stato dichiarato vincitore del 1° premio del Concorso Marchio Microeditoria di qualità di Chiari (BS) 2016, per la categoria Narrativa, e del premio della I edizione per “opera prima” Mimì Marchese di Misilmeri (PA).

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