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Unicità, Wislawa Szymborska

Unicità. Com’è liberatoria questa parola! Vuol dire esprimere la propria individualità, diventare ed essere se stessi. Jung diceva: <<Ciascun essere umano è una forma di vita in se stessa unica e irripetibile. L’uomo nasce con la sua individualità. Ma c’è qualcosa che egli può fare al di là e al di sopra del materiale precostituito della sua natura, e cioé può diventare cosciente di ciò che lo fa essere la persona che è, e può consciamente adoperarsi per connettere ciò che egli è con il mondo che lo circonda. E questo è forse il massimo che ci è dato di fare>>. In queste frasi si concentra la magia dell’unicità che riveste ognuno di noi, in relazione anche a ciò che c’è al di fuori di noi. Siamo irripetibili. Non esiste e non esisterà un altro me o un altro te. E nonostante l’esistenza soffocante di una spinta all’omologazione, all’uniformità e alla conformità, essere se stessi rimane la più grande opera di libertà che possiamo realizzare. L’ unica conquista che ci rende essere vivi e non solo esseri in vita. A questo proposito c’è una poesia, “Nella moltitudine” di Wislawa Szymborska, che esprime pienamente questo concetto. Poetessa e saggista polacca, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996, Szymborska amava fotografare la quotidianità dell’esistenza attraverso le proprie poesie. Ogni cosa era per lei materiale per la poesia. “Non è il genere umano che bisogna amare, bensì gli uomini, ogni individuo separatamente” – diceva.

Nella moltitudine

Sono quella che sono.

Un caso inconcepibile

come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere

altri antenati,

e così avrei preso il volo

da un altro nido,

così da sotto un altro tronco

sarei strisciata fuori in squame.

Nel guardaroba della natura

c’è un mucchio di costumi: di

ragno, gabbiano, topo di campagna.

Ognuno calza subito a pennello

e docilmente è indossato

finché non si consuma.

Anch’io non ho scelto,

ma non mi lamento.

Potevo essere qualcuno

molto meno a parte.

Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame

ronzante,

una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.

Qualcuno molto meno fortunato,

allevato per farne una pelliccia,

per il pranzo della festa,

qualcosa che nuota sotto un vetrino.

Un albero conficcato nella terra,

a cui si avvicina un incendio.

Un filo d’erba calpestato

dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella,

buona per altri.

E se nella gente destassi spavento,

o solo avversione,

o solo pietà?

Se al mondo fossi venuta

nella tribù sbagliata

e avessi tutte le strade precluse?

La sorte, finora,

mi è stata benigna.

Poteva non essermi dato

il ricordo dei momenti lieti.

Poteva essermi tolta

l’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore,

e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso.

Wislawa Szymborska

Potevo essere tante cose diverse da ciò che sono, avere avuto antenati altri e prendere il volo da un altro nido e verso un’altra direzione. Avrei potuto essere meno fortunata, come un animale a cui sottrarre il manto, o il tronco di un albero bruciato da un incendio, o un filo calpestato. Potevo nascere da un’altra parte, in una tribù sbagliata, sotto un cielo meno fortunato. Potevo non godere del ricordo dei momenti felici. La sorte è stata dalla mia parte. Io non ho scelto nulla ma non mi lamento. Potevo essere me stessa ma senza stupore. E senza la capacità di meravigliarmi e di stupirmi del mondo e di ciò che c’è intorno a me, non sarei stata io.

Con leggerezza, cura per le parole e padronanza del lessico e della musicalità, Wislawa Szymborska ritrae il miracolo della vita, del vivere e di essere se stessi. Accettando la vita stessa partendo dalle forme più semplici e amando la propria unicità. La sua era l’unicità di chi sa stupirsi dal profondo.

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