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Viaggio nella relazione d’aiuto – Intervista

Viaggio nella relazione d’aiuto è un saggio scritto dalla Dottoressa Alessandra Gallo e pubblicato dalla Kimerik. Lei è Counselor per i disoccupati e per i malati di cancro. In questo testo mostra i disagi psicologici e sociali che devono affrontare ambedue le categorie, fatte di uomini e donne che soffrono e cercano una strada per vivere meglio e bene. Lei interviene in questo, aiutandoli, comprendendoli e additando una possibile strada d’uscita, diciamo come se fosse un’uscita d’emergenza. Nel libro sono presenti alcune testimonianze, e non manca anche la storia della stessa autrice. Un bel libro, formativo, sia umanamente sia culturalmente.

Cos’è il Counseling? E chi è il Counselor? Iniziamo a districarci con questi due termini. Il Counseling è un processo relazionale tra Counselor e Cliente, un percorso in cui il Cliente può accrescere il suo livello di autonomia e di competenza decisionale, mediante l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e del proprio potenziale di risorse personali. Alla base del Counseling vi è la ferma convinzione che il Cliente sia il maggior esperto di se stesso e del suo problema, il portatore di tutto il potenziale necessario per affrontarlo e risolverlo, il principale protagonista del suo processo di sviluppo personale e di problem solving (definizioni tratte dal sito del Cncp – Coordinamento Nazionale Counselor Professionisti). Il Counseling si presenta quindi come un percorso in cui la persona portatrice di un bisogno viene aiutata ad affrontare la difficoltà acquisendo maggiore consapevolezza, ritrovando quella motivazione ed energie necessarie ad agire con autonomia e decisione. Gli ambiti del mio specifico intervento riguardano l’area “Lavoro” e “Salute”. Il percorso di Counseling si sviluppa in un percorso della durata massima di 10 incontri rivolti:

-a chi ha perso il lavoro e ne cerca uno nuovo

– a chi lo possiede ma per motivazioni diverse (mobbing, problemi familiari, di salute, ecc.) ne cerca uno nuovo

– a chi ha ricevuto una diagnosi di tumore (o malattia più in generale) e deve intraprendere un percorso terapeutico importante

– a un familiare che si ritrova a dover sostenere il congiunto ammalotosi e presenta difficoltà di gestione dei bisogni del malato

– a tutti coloro che sentono la necessità di essere supportati nell’ambito della gestione delle relazioni e della definizione di un percorso di vita personale e professionale.

Il Counselor è un professionista che possiede il diploma di laurea e/o una esperienza professionale comprovata nell’ambito dei servizi alla persona. Il percorso formativo per un Counselor prevede il superamento di un corso triennale in Counseling nell’indirizzo di studi prescelto (il mio è in Analisi Transazionale, corrente psicoanalitica), momenti di supervisione e analisi personale e prosegue successivamente con percorsi di Formazione Continua. Una società in continuo movimento richiede che i professionisti siano attenti ai cambiamenti in atto, ai bisogni emergenti e quindi alle competenze necessarie per sostenere le persone che chiedono aiuto.
Che rapporto s’instaura tra cliente e Counselor? La persona che necessita di supporto si rivolge al Counselor con il quale intraprende un breve percorso di Counseling, caratterizzato da incontri che possono sfociare in eventuali rinvii a specialisti quali Psicologi, Psicoterapeuti e altri professionisti con i quali affrontare le tematiche riportate in modo più specifico. La creazione di un network di professionisti è fondamentale per chi opera in questo settore. Il rapporto rientra in una tipica relazione di aiuto in cui alla fondamentale e imprescindibile capacità di ascolto in possesso del Counselor, si aggiungono altri elementi caratterizzanti quali assenza di giudizio, empatia e vicinanza. Il presupposto è che la persona, se posta di fronte al problema da lei riportato ma osservato da un’angolatura diversa (quella del Counselor), sia in grado di ri-attivare la motivazione e le energie in suo possesso necessarie ad affrontare la difficoltà. In poche parole si aiuta la persona a diventare soggetto attivo della propria vita attraverso una presa in carico del proprio problema. Il sostegno si attiva attraverso un ascolto attivo del Counselor verso l’altra persona, una genuina empatia, una attenzione verso quanto raccontato: quante volte lo stesso problema osservato da altri presenta aspetti da affrontare mai presi in considerazione? La funzione del Counselor è di rispecchiare quanto a lui riportato, individuando insieme alla persona opzioni di interventi utili al problema. Questa breve descrizione del processo di Counseling la dice lunga su chi ricopre questa professione. Al Counselor si chiede di “essere Counselor”, si chiede una motivazione profonda verso la relazione di aiuto e si chiede di “fare” Counseling attraverso un’attenzione “al qui e ora”, partecipando all’attivazione della persona, offrendo spunti di riflessione e azione per aiutare concretamente ad affrontare il problema. Ad esempio, nelle mie aree d’intervento mi occupo della perdita improvvisa di impiego o di coloro che devono affrontare le cure a seguito della diagnosi di cancro. Il mio lavoro prevede un mio costante aggiornamento per offrire informazioni su servizi, attività, capacità di leggere il contesto sociale e decodificarlo se necessario, (es. concretamente cosa prevede un progetto di ricollocazione per disoccupati? Nel territorio quali sono i servizi che si occupano di sostenere emotivamente i malati?) osservazione e analisi dei processi attraverso i quali una persona mi chiede sostegno emotivo perché in difficoltà o una famiglia non sa a chi rivolgersi per un supporto alla gestione del parente malato.
I disoccupati, nella loro condizione di assenza di lavoro, cosa hanno perso a livello psichico e sociale? Chi perde impiego perde denaro. Ma non solo. Chi perde impiego perde improvvisamente un’identità professionale ma anche sociale che spesso vengono fatte coincidere. “Chi sono ora, senza lavoro? Cosa farò della mia vita?” Queste sono domande spesso rivoltemi in colloquio. Capita che gli uomini over 55, che hanno sempre lavorato per decenni in ambiti esecutivi (es. operaio), che possiedono bassi titoli di studio per riconvertirsi in altri impieghi, presentino atteggiamenti di sconforto importanti che rasentano la depressione, per i quali sono costretti in taluni casi a ricorrere a psicoterapie e psicofarmaci. Le donne, in genere, sono diverse. Culturalmente abituate a creare reti di amicizie che possono essere di aiuto anche per la ricerca di lavoro, reagiscono in modo diverso. Se poi sono madri la reazione è più importante perché non hanno tempo per piangersi addosso. In vent’anni di esperienza queste differenze di genere sono state da me osservate spessissimo con una particolarità: stare insieme, condividere lo stesso temporaneo (si spera) destino di disoccupazione, aiuta tanto, uomini e donne indistintamente. Quando le persone si aggregano come i due utenti nella storia da me descritta (si veda a pag 57, Marco e Massimo) cercare lavoro diventa un’azione più leggera, diventa un importante momento di solidarietà e condivisione con la Counselor che media le istanze fornendo strumenti tecnici ma offrendo anche idee e sostegno all’attivazione.
Chi ha perso il lavoro in quale ambito si sente più inadeguato? Chi perde lavoro si sente inadeguato come persona che perde dignità. “Il lavoro è dignità”, mi è stato detto dai disoccupati in diverse e tante occasioni. L’inadeguatezza è anche legata alle competenze in loro possesso che diventano obsolescenti: il diploma di terza media non basta più. L’uso del computer è richiesto quasi ovunque ed è necessario sapere usare internet, posta elettronica, saper leggere attentamente gli annunci e inviare curricula redatti bene, con le informazioni necessarie. Ci si sente inadeguati per la non abitudine alla costanza nella ricerca del nuovo impiego, per l’età richiesta negli annunci che crea frustrazione, perché non si possiede la patente o perché non si possiedono i soldi per acquistare auto e assicurazione. La manutenzione di un’auto, infatti, è un costo che non tutti possono sopportare. E il senso di inadeguatezza e impotenza prende piede.
Che cosa fa lo stato per sostenere i disoccupati e gli ammalati di cancro? Nel primo caso vi sono le Regioni che attraverso i Centri Impiego (ex Uffici di Collocamento) promuovono progetti a favore dei disoccupati (es in Lombardia da diversi anni vi sono i progetti Dote Lavoro). Le Regioni promuovono progetti per disoccupati cui partecipano anche le agenzie per il lavoro e altri servizi privati accreditati. Nel secondo caso vi sono le Strutture Ospedaliere Pubbliche e Private convenzionate che si occupano degli aspetti di terapeutici delle cure, vi sono le Associazioni (come la mia “Il Sorriso nel Cuore Onlus”) e Strutture del Terzo Settore che propongono progetti rivolti ai malati oncologici che vengono inseriti in programmi di benessere e sostegno (fornitura parrucche, trasporto, musicoterapia, arte terapia, counseling, ecc.).
La seconda parte del suo libro s’intitola “ La Resilienza”, cos’è? Il significato di questa parola si rifà alla Fisica, in quanto qualità dei corpi che possono subire sollecitazioni (es. eventi climatici esterni quali vento, pioggia, ecc.) fino a minarne l’integrità. La metafora scientifica rimanda quindi alla capacità di affrontare le avversità della vita, superarle e uscire rafforzati o addirittura rafforzati. Amo pensare questo motto che credo visualizzi e sintetizzi il concetto:” mi piego ma non mi spezzo”. Un dato di fatto: la perdita del lavoro e della salute rappresentano eventi traumatici (l’evento climatico di cui sopra). Essere resiliente in ambito lavorativo vuol dire, ad esempio, fronteggiare l’evento traumatico del licenziamento. E fronteggiarlo vuol dire agire, intraprendere azioni per risolvere anche parzialmente il problema. Con quali azioni? Rivolgersi ai servizi esistenti nel proprio territorio, rivolgersi a chi si occupa di Orientamento e ricerca del lavoro, collaborare con questa e non demandarle le azioni di ricerca del lavoro, farsi cioè aiutare e aiutarsi attraverso una ricerca congiunta dei canali formali e non per la ricerca del lavoro. In una parola: darsi da fare. Non bisogna bloccarsi nel proprio dolore perché non serve a nulla. E magari creare nuove amicizie con cui condividere il momento di difficoltà, dettato dalla disoccupazione. Essere resilienti in caso di malattia comporta invece la capacità di reagire alla notizia della diagnosi con un inevitabile pianto e con un successivo atteggiamento volto all’azione: “Ora che faccio? Inizio un nuovo complicato percorso ma ce la posso fare! Sono stanca/o ma bisogna reagire!” In comune con la ricerca del lavoro c’è la necessità di rivolgersi ai servizi esistenti e informarsi sulle iniziative esistenti. Questa razionalità orientata allo scopo deve andare di pari passo con le emozioni che inevitabilmente arrivano e che bisogna gestire. “Ho paura di morire”…”Non voglio dire nulla a mia moglie..”..” Mi sento tanto sola e non compresa dai miei famigliari”. Queste sono emozioni importanti che non vanno soffocate. Essere resilienti non vuol dire parlare 24 ore su 24 di cancro. Vuol dire parlare di cancro ma anche della vita del “qui e ora”, parlare di relazioni, di speranza, di sfiducia ma anche di felicità nelle piccole cose. E se possibile dedicare tempo a se stessi, alla musica o comunque a tutto ciò che fa star bene. La resilienza va stimolata, alimentata e sostenuta perché essere resilienti vuol dire vivere meglio in un momento di difficoltà. E questo è parte del mio lavoro di volontaria in ospedale, così come descritto nel libro.
Ci parli del disagio che vivono le persone malate di cancro. Come vivono la loro malattia, la loro nuova realtà? Il disagio è caratterizzato da un elevato livello di complessità. Questa è data da variabili quali aspetti caratteriali dell’individuo, autostima, abilità sociali, cultura dell’individuo e della famiglia, rete di sostegno sociale ed economico. Si tratta di variabili che si intrecciano per concorrere all’azione dello stato di adattamento alla vita quotidiana. La comunicazione della diagnosi di cancro è cruciale e non sempre avviene, per i modi impiegati, senza dolore per chi la riceve (vedi storia di Cristina pag. 63). I malati lamentano la difficoltà di essere ascoltati nel loro dolore, altri sono loro stessi che non accettano la situazione venutasi a creare, oppure vi sono casi in cui sono gli stessi famigliari a manifestare difficoltà e ad accettare la nuova condizione del parente. Colpisce molto la (apparente, a mio parere) indifferenza di amici e parenti denunciata spessissimo dai malati. Questa indifferenza che maschera una paura procura dolore e in alcuni casi è di ostacolo all’adesione terapeutica. Le emozioni non dette, non esplicitate sono un potente motore di malessere psicologico ma anche fisico. Fronteggiare una malattia non vuol dire non provare dolore. É impossibile. Fronteggiare vuol dire invece “spaventarsi ma non impaurirsi”, come fossimo dinnanzi ad un film horror* in cui l’emozione prodotta in noi esce da noi e rimane fuori da noi, per essere gestita. Ma per gestire l’emozione negativa è necessario essere sostenuti emotivamente, essere accompagnati a farlo, essere compresi, parlare liberamente delle proprie paure e poter tirar fuori le proprie emozioni. Io mi occupo di queste emozioni. Questo è il mio lavoro.

Ps: La bellissima metafora cinematografica* utilizzata da uno Psiconcologo, che ha in cura una mia carissima amica, credo renda bene l’idea.
Pensa di scrivere un altro saggio su quest’argomento o passerà ad altro? Credo di sì. Sto raccogliendo altra esperienza. Non basta riportare la teoria quando si parla di disoccupazione e malattia. La realtà è molto più complessa di quanto sembri e forse descrivere la parte meno visibile agli occhi di chi non è coinvolto direttamente da questi fenomeni o lo è ma teme di raccontare, può essere di grande aiuto a tutti. A noi tutti.

 

Anna Pizzini

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