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“PARTIGIANI non santi ma combattenti” di Corrado Leoni

Un mare mosso, sovrastato da una piccola ma intensa stella rossa, quasi un faro fermo nel cielo che fa da contrappunto alla caoticità delle acque in movimento.  Già l’immagine di copertina anticipa il clima del romanzo di Corrado Leoni, “Partigiani non santi ma combattenti” (Kimerik Editore, 2021): il racconto corale di uno dei più cruenti periodi della storia d’Italia, quello della Resistenza all’occupazione nazifascista (1943-1945), che ancora suscita barricate ideologiche e bandiere politiche, quando non anche reazioni viscerali legate al vissuto famigliare di ciascuno di noi. Una materia che ancora scotta e ribolle nel dibattito storiografico, dove il vaglio dei documenti e delle testimonianze stenta a produrre un giudizio critico condiviso e super partes. Questa difformità di giudizio si riscontra, non a caso, anche nella necessità di celebrare in modo separato e non condiviso la memoria delle vittime della seconda guerra mondiale, ed è cosa ben presente all’autore di questo libro, trentino di nascita e trapiantato in Lunigiana, che affronta l’ardua impresa con la pazienza e la cautela che si richiede al restauro difficile e delicato di un affresco. Anzi, di un “grande mosaico” – tale è il suo concetto di Storia -, di cui vorrebbe ricomporre l’unità ripulendo ogni tessera da incrostazioni/distorsioni/pregiudizi per restituire allo sguardo lo splendore di una narrazione quanto più possibile onesta e fedele, calata nel suo contesto geografico e temporale.

Qual è dunque l’osservatorio di Corrado Leoni? E’ la regione in prevalenza montuosa attraversata dalla Linea Gotica, il fronte difensivo creato dal feldmaresciallo tedesco Kesselring per frenare l’avanzata degli Alleati. Ma quel che interessa focalizzare è il punto preciso e nevralgico di osservazione: l’area dell’alta Valle del fiume Aulella, dove si trova la frazione di Regnano-Castello, da cui nasce e si irradia la brigata partigiana “Garibaldi Lunense”. Da qui, da questa zona vicina agli occhi e all’esperienza diretta di Leoni, si sviluppa la ricerca storiografica e insieme umana dello scrittore, che ricompone le “caselle di un disegno infinito”, quello della Storia, ma a partire dal basso, dalla vita vera di una comunità rurale semplice e laboriosa, che ha in sé la forza di esprimere orgoglio, opposizione, capacità di sacrificio di fronte ad una guerra non voluta e non compresa nelle sue motivazioni ufficiali.

Il racconto si lega fin dall’inizio ai riti quotidiani di questa gente umile, poco alfabetizzata, dedita ad un’attività agropastorale che ripete con gesti e ritmi ancestrali, in una realtà geografica già di per sé isolata in un eterno medioevo. Alle durezze della vita contadina, incatenata ai contratti di mezzadria, si aggiungono le pretese delle autorità locali (podestà, segretario del fascio, attivisti e miliziani del partito unico), che rastrellano derrate alimentari e giovani vite da spedire al fronte, controllando la popolazione anche col ricatto dei rapporti interpersonali.

Dopo la caduta del governo Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre (in realtà una resa incondizionata, ci tiene a precisare l’autore), la saldatura tra il regime fascista repubblichino e la protervia dei camerati tedeschi “traditi” dagli italiani diventa una morsa opprimente, aggravata dalla fuga della casa reale e di Badoglio verso il sud liberato, dalla sfiducia nelle istituzioni che impongono la continuazione della guerra in un contesto di sbandamento dei ranghi militari e di ribaltamento delle alleanze. Ma i disastri della politica nazionale e delle sue alchimie sono lontani dall’orizzonte delle famiglie contadine ridotte allo stremo e impegnate nella lotta per il pane quotidiano; nonostante le minacce e le delazioni, si ingrossano le file dei renitenti alla leva e dei disertori, degli “sbandati” e dei clandestini.

Nascono così, nella miseria e nell’insicurezza, i primi movimenti spontanei resistenziali e poi le prime organizzazioni partigiane armate che sfidano l’invasore con le loro truppe paramilitari, male armate e spesso affamate, in una dura azione di guerriglia e di logoramento.

La forma del romanzo non toglie verità e attendibilità alla storia, le vicende dei partigiani non si trasformano in retorica o epopea, ma si incarnano in persone autentiche e umanissime che pur nella clandestinità tengono i contatti con le rispettive famiglie, da cui ricevono al bisogno cure, cibo e conforto affettivo. Con queste comunità contadine i partigiani si identificano in tutto, perché sono fatti della stessa carne e partecipano delle stesse sofferenze. Nel contesto ambientale assai veritiero che Leoni delinea, al disordine (il mare mosso) indotto dalla guerra e dalla politica si contrappone un ordine (la stella rossa) garantito dai legami affettivi, dalla solidarietà tra individui e nuclei famigliari, dall’appoggio delle parrocchie: in sostanza, dai valori maturati all’interno della cultura di appartenenza. Difendere quella cultura e quella terra è la necessità prioritaria, ecco perché lo scopo della conquista della libertà dal nazifascismo mette d’accordo i partigiani tutti, nonostante la diversità delle posizioni ideologiche. Diverse figure spiccano per il loro spirito combattivo e per alcuni tratti che caratterizzano quella società umile ma tenace: Sante, Domenico, Orazio, Placida, Ancilla, Alfredo, don Lucio. Parroci, sacerdoti e frati hanno un gran peso nel romanzo: alcuni, accusati di partigianeria, finiscono torturati e giustiziati. In quel grave conflitto civile, fungono da pacieri e mediatori, schierandosi quasi sempre dalla parte della popolazione che soffre, specialmente quando occorre dare rifugio ai perseguitati o quando i tedeschi in ritirata, sempre più inferociti, scatenano nei paesi dell’Appennino tosco-emiliano e delle Apuane rastrellamenti e stragi efferate contro i civili indifesi.

Nell’introduzione al romanzo, Corrado Leoni esplicita le ragioni della sua lettura storica: “rendere giustizia alla memoria dei terribili eventi…” e “onorare il ricordo degli abitanti di quelle comunità rurali…”. Non è certo il valore epico-militare quello che a lui interessa, né le polemiche sugli inevitabili errori che le formazioni dei partigiani (non santi ma combattenti, sottolinea il titolo) possono avere compiuto in quegli anni feroci. Dietro il velo assai trasparente della fiction, c’è un atto amorevole e pietoso: interrogare i morti di questo tratto della storia patria per far emergere un’avventura umana che aiutò in modo decisivo la nazione ad uscire dalla guerra. Un’avventura generosa nel donare giovani vite e già per questo meritevole di riscatto morale e civile.

 

Enrichetta Dallari

Operatrice del Museo Italiano
dell’Immaginario Folklorico

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