SiciliaSocietà

Trenta anni fa uccidevano un difensore delle Istituzioni democratiche

Paolo Borsellino era un Magistrato (la M è maiuscola e non c’è niente da aggiungere, nel senso che tutti conoscono la sua dimensione umana e il suo valore professionale).
Faceva il suo dovere, un obbligo morale che il tuo carattere, la sua educazione e la sua formazione gli avevano consegnato.
Tutti sappiamo che si opponeva ai clan mafiosi. In modo determinato e deciso. Un servitore dello Stato che faceva il suo dovere fino in fondo. Ma Borsellino aveva capito che vi era nel suo ruolo una rilevanza ancora più forte: sentiva tutto il peso di una lotta più grande. Non solo contro i clan, ma anche contro le infiltrazioni mafiose nei gangli dello Stato.
Le zone grigie che condividevano omertà e interessi con la mafia. Aveva capito che era una battaglia molto grande e contro cui poco poteva fare.
In questa consapevolezza vi è la grandezza dell’uomo e l’eroicità del magistrato. Pur consapevole della battaglia da compiere, consapevole che la battaglia l’avrebbe sicuramente persa non si fermò un solo momento.
Trenta anni fa uccidevano un difensore delle Istituzioni democratiche perché aveva capito che doveva dimostrare a tutti (e lo fece) che c’era uno Stato che non faceva patti con i clan.
Paolo Borsellino e gli uomini che quel giorno persero la vita dimostrarono a tutti che questo Stato c’era.

La strage di via D’Amelio non fu solo una bomba, ma un attentato di stampo terroristico-mafioso avvenuto domenica 19 luglio 1992, all’altezza del numero civico 21 di via Mariano D’Amelio a Palermo, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Share Button

Lascia un commento