Analisi del testo

Parlare di Filosofia è parlare d’amore Leopardi e Schopenhauer

La malinconia dell’Universo: Leopardi e Schopenhauer

Abbiamo scelto questo argomento per il significato di riflessione che il rapporto “Uomo-Natura” rappresenta.
Potrei aggiungere che il silenzio della poesia, la riflessione dell’uomo dinanzi all’infinito: quella cesura che si assottiglia e fa sì che l’orizzonte terreno si dilati, rappresentano una dimensione etica di impegno civile dell’uomo.
Sto parlando dello smarrimento umano, della paura del domani, della ricerca del senso della vita. Temi ampiamente trattati dagli autori da me indicati con il presente percorso.
Sarebbe troppo semplice rappresentare “tout court” questa paura come pessimismo, vi è naturalmente di più.
Attraverso questo percorso abbiamo voluto rappresentare la determinazione e la capacità dell’uomo che quando consapevole affronta il proprio destino con la lucidità razionale del pensiero.
L’approdo è a volte desolante, struggente, il pessimismo storico si fa cosmico e per l’uomo non vi è salvezza. Eppure resta immutata la costanza della ricerca della verità.
Per Leopardi ogni essere è stimolato per natura da un continuo desiderio di piacere. Questo desiderio incessante potrebbe essere appagato solo da un piacere infinito. Ma i piaceri che ci offre la realtà sono insufficienti a soddisfare la nostra natura che ci spinge a volete sempre di più senza mai trovare soddisfazione.
Il Dialogo della Natura e di un islandese si apre con “Chi sei?” e si chiude con una domanda “a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”
Dentro questi due interrogativi il dramma dell’uomo eppure nonostante tutto sia inutile, nonostante il Dialogo sia “chiuso” nel senso che non riusciamo a carpire una risposta (che non ci potrebbe essere, perché non c’è – ed è questo il senso ultimo del Dialogo).
Una domanda e poi un’altra, e l’islandese che si era recato nel posto più sperduto del mondo proprio per non incontrare la Natura deve fare i conti proprio con ciò che tentava di sfuggire.
C’è la sconfitta, certo ed il pessimismo, ma c’è anche il coraggio e l’ambizione della ricerca. La capacità intellettuale di porsi delle domande.
“La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo”.
(Zibaldone, 1831)
L’infelicità umana deriva appunto dall’insuperabile distanza tra l’infinità del desiderio e la finitezza della realtà. Nella seconda fase del suo pensiero, l’infelicità dell’uomo non dipende da questa o quella situazione storica ma dalla contraddizione tra ciò che egli percepisce come il suo fine personale, il piacere, il graduale deperimento, annullamento e riciclaggio a cui la Natura lo destina insieme a tutte le altre parti dell’universo.
“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli esseri a loro modo. Non l’individuo ma la specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
(Zibaldone, 1826)
“Forse in qual orma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale”
(Canto notturno di un pastore errante dell’Asia,1830)
Ugualmente pessimista Schopenhauer, ma con venature diverse il filosofo affronta anche egli la scoperta dell’infelicità con serena consapevolezza.
È irrazionale – per Schopenhauer – ossia priva di senso, la stessa esistenza che si protrae per un certo periodo e che si conclude, dopo un invecchiamento penoso, con la morte e l’estinzione dell’organismo. È parimenti irrazionale il generale comportamento dell’uomo, così come viene indotto dalla volontà perché l’uomo, nonostante la sua intelligenza, è continuamente soggetto al dominio di una volontà irrazionale e tiranna; la sua razionalità non è quindi né autonoma né “libera”.
Questi caratteri che la volontà assume, quando si oggettiva nel mondo mediante quello che Schopenhauer chiama il principium individuationis, sono all’origine, come si può ben capire, di tutte le pene, di tutte le sofferenze e dei crucci che la vita ci riserva.

Da queste poche considerazioni fatte possiamo dire che il pessimismo di Schopenhauer affonda la sua ragione d’essere nella sua filosofia; è un pessimismo conseguente alla sua analisi filosofica, alla sua disposizione mentale: possiamo dire che è un pessimismo dell’intelligenza, assai diverso dal pessimismo della volontà che sembra animare le riflessioni di Leopardi. Mi sembra di poter dire che il pessimismo di Leopardi proviene da una disposizione d’animo, non è il frutto di una vera e propria filosofia, che in Leopardi non c’è, mentre il pessimismo di Schopenhauer è conseguente ad una lucida analisi filosofica. Il pessimismo di Schopenhauer deriva dalla consapevolezza che l’irrazionale domina la ragione e il mondo e che il male presente nel mondo è “reale e concreto”, è cioè di natura “positiva”, mentre il piacere e la felicità, sono di natura “negativa” : quest’ultimi non vengono sentiti nel momento in cui li viviamo, li percepiamo invece come beni perduti, quando non li abbiamo più. Il piacere e la felicità sono spesso chimere non raggiungibili perché proiettati sempre in un futuro lontano e incerto. Per questo motivo “l’uomo saggio scrive Schopenhauer – come già vedeva bene Aristotele, non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore.”
La natura prevalentemente chimerica della felicità e del piacere e la natura “positiva” del dolore, sono temi ricorrenti negli scritti di Schopenhauer, dall’età giovanile alla maturità.
L’illusione di poter raggiungere facilmente la felicità non è data solamente da un’erronea impostazione dell’educazione o dalla inevitabile distorsione dei valori morali e del costume di ogni società. Già il nostro Petrarca metteva in evidenza, in una delle poesie del Canzoniere, essere la corruzione dei costumi uno dei mali maggiori della società del suo tempo. La nostra società in particolare contribuisce ad alimentare questa illusione, diffondendo una cultura edonistica e consumistica, un certo mito del progresso ecc., che sono tutti elementi peggiorativi che erano estranei ai tempi del Petrarca. Di questa ideologia, ancora una volta, sono maggiormente vittime i giovani. Con questo non vorrei giungere ad accusare la nostra società di colpe che non sono tutte sue. Anche per Schopenhauer questo errore non è imputabile ad una particolare società, perché esso è profondamente radicato negli uomini e li accompagna fin dalla nascita.
“Siamo tutti nati in Arcadia – scrive Schopenhauer – tutti veniamo al mondo pieni di pretese di felicità e di piaceri e nutriamo la folle speranza di farle valere, fino a quando il destino ci afferra bruscamente e ci mostra che nulla è nostro, mentre tutto è suo, poiché esso vanta un diritto incontestabile non solo su tutti i nostri possedimenti e i nostri guadagni, ma anche sulle nostre braccia e le nostre gambe, sui nostri occhi e sulle nostre orecchie, e perfino sul nostro naso al centro del volto.”

Da queste riflessioni nascono alcune considerazioni. In primo luogo tutti ci portiamo dietro, con la nascita questa pretesa di felicità o, per meglio dire, tutti nasciamo con un errore innato. Questo errore può essere corretto dall’esperienza, se “ci rendiamo conto che il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore… e ci guardiamo bene dal guastarlo aspirando senza posa a gioie immaginarie o preoccupandoci con timore di un futuro sempre incerto, che – per quanto lottiamo – rimane sempre nelle mani del destino.”
Per Schopenhauer affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire che la vita è dolore. Infatti volete significa desiderare, e il desiderate porta ad uno stato di tensione, per la mancanza di ciò che vorremmo avere. Il desiderio risulta quindi per definizione, assenza, vuoto ossia dolore.
“Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta”
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Entrambi gli studiosi considerano il piacere come una momentanea cessazione del dolore:
Per Schopenhauer la soddisfazione di un desiderio (il piacere) o ne suscita altri o fa precipitare l’uomo in una situazione altrettanto: negativa che è la noia
“Dunque la vita oscilla come un pendolo fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno di dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, nient’altro all’infuori della noia”
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Per Leopardi ogni parvenza di felicità è un inganno:
“O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno”
(La quiete dopo la tempesta, 1829)

Per entrambi l’uomo insegue il piacere infinito ma non lo raggiunge mai:
“Di tal natura sono gli sforzi e i desideri umani che ci fanno brillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà, ma non appena vengono soddisfatti cambiano fisionomia[..] Vengono sempre messi da parte come illusioni svanite”
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
“La felicità è possibile a chi la desidera perché il desiderio è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita e non ha limiti [..] e la felicità ed il piacere è sempre futuro, [..] esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue”
(Zibaldone, 1821)
Per il poeta le illusioni proprie solo della giovinezza, costituiscono l’unico momento felice dell’uomo, perché la felicità non può consistere che nell’attesa e nel sogno, o nella loro ricordanza:
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
(Il sabato del villaggio, 1829)
Secondo il filosofo può dirsi fortunato chi, nonostante le delusioni, coltiva ancora qualche desiderio, perché può ancora illudersi; chi non ha più alcun desiderio precipita nella noia, cioè in una condizione ancora più infelice
“Fortunato abbastanza colui, al quale resti ancora da accarezzare qualche desiderio, qualche aspirazione. potrà continuare a lungo il gioco del perpetuo passaggio dal desiderio all’appagamento, dall’appagamento il nuovo desiderio […]; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante stasi che è sorgente di stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languore mortale”.

Sembra così furori moda parlare di melanconie e tedio, di dolore dell’anima.
Certo la nostra è una società che nasconde, che cela, che mitiga. Dobbiamo stare bene, dobbiamo stare sempre bene. Non si può mostrare il dolore. Attivismo, dinamismo a tutti i costi. Che baggianata.
Dobbiamo interpretare i nostri sentimenti ed accettarli, anche quando non sono positivi.
Sono nostri, ci appartengono. Del resto ammettiamolo: un po’ di malinconia rischiara i cuori. L’ombra è necessaria alla luce così come la malinconia nutre la gioia. Come potrei mai capire il concetto di felicità se non lo contrappongo alla infelicità? Come posso superare la malinconia se non mi pongo come obiettivo la felicità discernendo consapevolezza le differenze, comprendendole e dunque accettando consapevolmente quel ventaglio di emozioni che ci rendono speciali?

Gianfranco Natale
© Riproduzione riservata

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