Penelope alla vita

Penelope alla vita: “Sogno o son questa?”

Dormo a intermittenza, da settimane ormai; ci dev’essere qualche filo – uno di quelli che collegano il corpo all’anima –  che non fa bene contatto.

Mi sdraio, spengo la luce e fisso un soffitto che non vedo; il buio in camera è denso come catrame, così immagino che sia un grande telo nero dove vengono proiettate immagini spinte. Rivivo ricordi che modifico e ripercorro così come si sono svolti, a volte, altre in maniera diversa: capita così che occasioni perse divengono occasioni colte; mani solo sfiorate diventano mani che afferrano, stringono, scivolano, penetrano… Solo così riesco nell’intento di scacciare i terribili pensieri che prendono forma nella mia mente. Solo così riesco a prendere sonno.

Sogno a chiazze, storie sempre diverse, cortometraggi che il mio conscio non riesce quasi mai a spiegare. Ne leggo di libri a tal proposito. Mica quella stronzata dell’interpretazione dei sogni, sia chiaro. Quella roba la leggono ormai tutti, la vendono persino al supermercato. Poi Freud, da quando ho visto il film “Dangerous Method”, mi sta sulle scatole. Preferisco Jung con la sua sete di superare il maestro, progredire, perdersi nell’occulto, nell’inspiegabile.

Cosa se non l’inspiegabile può condurmi al motivo per cui cerco a tutti i costi di cambiare la storia. Ulisse era tornato, dovevo solo disfare un’ultima volta la tela e con essa tutto il mio furente rancore, riabbracciarlo e ricominciare come se niente fosse successo e invece no. Mi sono complicata le cose.

Ho preteso la mia fetta di gloria, ma una fetta tira l’altra e il mio ego ingrassa. Morso dopo morso, pasto dopo pasto, articolo dopo articolo.

Comunque, non divaghiamo.

Stanotte ho sognato un bimbo, fluttuava nel mio ventre, cercava la strada per uscire. Gli ho detto che non era ancora ora, mi ha chiesto se è perché non erano ancora passati i nove mesi, gli ho risposto che il problema era un altro:

«Questo mondo non è più pronto per accogliere bambini, perché non sa come insegnare loro a non fare male ai propri simili»

Era dentro la mia pancia, però lo vedevo. Non chiedetemi come, non lo so. Sorrideva, aveva i capelli lunghi e aspettava gli mettessi un pannolino. Però era nella pancia, ne sono certa. Lo sentivo muoversi.

«Non ti serve il pannolino» gli ho detto «Quando ti scappa, dove ti trovi falla. Come fanno gli animali»

«Quelli che uccidete?» mi ha chiesto aggrottando la fronte «Li uccidete perché fanno i loro bisogni in giro?» ha insistito «Quindi mi uccideranno, se la farò dove capita come mi dici. Io però non voglio morire, per favore mettimi il pannolino così non mi uccideranno».

Non aveva senso ciò che diceva, però un po’ sì. Gliel’ho messo.

Mi sono risvegliata di soprassalto e mi sono toccata la pancia, era piatta come una carta da gioco. Di nuovo occhi sul soffitto, una mano scivola tra le gambe, mi accarezzo intorno al sesso mentre sul grande schermo nero passano le immagini di una notte di ferragosto: ero ubriaca e sdraiata sulla pancia di un ragazzo di cui non solo non conoscevo il nome, ma nemmeno il volto.

Intorno, ragazzi e ragazze privi di senso per la consueta, colossale, sbornia di mezza estate. Una mano di lui prende a fregare poco consapevole tra le mie gambe: scosta il costume di lato e si insinua tra le labbra già umide, poi esce, cerca di sfilarmi lo slip ma non riesce, infila la mano di nuovo dentro e, mentre il dito medio mi trafigge senza troppa delicatezza, il pollice crolla sul mio clitoride e prende a massaggiarlo con eccessivo impeto. Non mi piace così, ma forse sì.

Quando distolgo lo sguardo dal “mio film”, mi ritrovo a fare lo stesso ma meglio; perciò non faccio in tempo a raggiungere la parte di ricordo in cui con la mano avvolgo la sua erezione, in parte già fuori dal costume, e la dirigo verso la mia bocca impastata, che l’orgasmo mi catapulta su un aereo che sta precipitando in una Giungla. Chiudo gli occhi quando l’impatto è imminente ma, quando li riapro, sono incolume tra lamiere piegate e sedili in fiamme. Inizio a fuggire senza sapere dove andare, schivo alberi e animali d’ogni tipo e dopo diversi chilometri mi ritrovo tra le macerie di un’antica città.

Il conscio irrompe e suggerisce all’inconscio che si tratta di Lagunita, una città Maya del Messico sud-orientale scoperta per caso nel maggio del 2014 da un team sloveno dell’accademia delle bella arti.

«Ha certamente un signifcato» replica l’inconscio.

«Sbagli! Abbiamo visto un documentario su Discovery Channel qualche settimana fa, riguardo a questa scoperta»

Ignoro il dibattito e proseguo fino a quando davanti ai miei piedi s’apre un buco nel terreno con delle scale che portano sottoterra. Nella vita reale non ci entrerei nemmeno sotto tortura, ma sono in un sogno – ne sono consapevole – e ci entro con la stessa disinvoltura di quando scelgo i mandarini al banco della frutta.

Quando i gradini finiscono, mi trovo in una stanza al fondo della quale vi è un altare con sopra una grande statua che raffigura il bimbo con cui parlavo prima, quello dentro la mia pancia. Indossa ancora il pannolino che gli ho messo.

«Perché sei qui ora?» gli chiedo incredula.

«Sono diventato un’icona. L’icona della rivincita per vite che hanno conosciuto troppe volte la sconfitta»

«Non ti seguo»

«In troppi ormai fanno figli solo perché devono dare un senso alla propria esistenza; ma noi veniamo al mondo per percorrere e onorare la nostra vita, non per aggiustare quella degli altri. Molti, quando non hanno lavori, interessi o passioni degne d’essere mostrate con orgoglio ad amici e parenti, ci mettono al mondo e poi mostrano noi»

Il bambino di pietra ha ragione ma non so cosa rispondergli. In fondo io ero solo in cerca di un orgasmo. Un orgasmo mio, che mi facesse addormentare. Niente più.

«I figli sono tesori inestimabili, quando la loro ricerca non porta al sacrificio di chi li ha messi al mondo. Viceversa, sono cellule cancerogene che divorano il pianeta con il senso di colpa. Pensaci bene, mamma, prima di farlo»

E infine di sgretola e cade sul grande tavolo di marmo. Una nuvola di polvere si alza e, aggrappandosi alla prima corrente d’aria, se ne scappa su per le scale. Come un’anima che ancora non ha trovato il corpo giusto in cui metter radici; come una nuvola che non ha trovato il terreno giusto su cui far cadere la propria pioggia.

Riapro gli occhi e le mie dita sono fradice, le gambe tremolanti, il respiro affaticato. Mi tocco la pancia, è piatta. Sempre come una carta da gioco.

Guardo l’orologio, sono solo le tre e trenta. Davanti a me tanti altri orgasmi e tanti altri sogni, prima che venga giorno e finalmente tutti i demoni fuggano dove la luce del sole non può arrivare.

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Eugenie Genin

Nel 2015 pubblica con la casa editrice Milena Edizioni il suo primo libro "Il basilico raccolto all'alba. Romanzo Erotico.

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